L'impronta di Van Dyck

Il 25 giugno 2020, presso la casa d’aste Wannenes a Genova, è transitato al lotto 647 un Ritratto di gentiluomo (olio su carta applicata su tela, cm 115 x 85) intestato alla cerchia di Anton van Dyck (1599-1641), il grande maestro fiammingo celebre per la sua attività di ritrattista di personaggi dell’epoca, re, nobili, ecclesiastici, ricchi borghesi, mercanti, artisti, compresi loro consorti e familiari, tanto da poterlo considerare il ritrattista par excellence dell’arte europea. Nella relativa scheda si afferma che l’accostamento all’ambito del pittore “è dettato dall’aria spiccatamente vandichiana”, chiamando in causa il Ritratto del teologo Alexander Henderson della Scottish Portrait National Gallery di Edimburgo (1640 ca.) [1] per “la posa e la scenografia con la colonna di sfondo”, mentre tecnicamente viene richiamata, a proposito dell’utilizzo della carta, la risaputa “predilezione all’uso di tale supporto da parte dell’artista”, dichiarazione piuttosto significativa che costituisce una sorta di campanello di allarme, per instradare forse nella direzione di rendere più diretto e serrato il rapporto tra il quadro e l’artista di Anversa, vicinanza e magari sovrapposizione che pare giustificata dall’aggiunta che “la qualità della composizione, delle stesure e dei pigmenti suggerisce senza esitazioni che l’autore era un maestro dedito al genere ritrattistico”.
Proprio le annotazioni della scheda, vaghe e ipotetiche per un verso ma allusive e suadenti per l’altro, ci spingono a tentare di stringere ulteriormente tale relazione e verificare se il dipinto, passato in collezione privata, possa ascriversi alla mano di Van Dyck sulla base di un’analisi stilistica e delle risultanze degli esami scientifici appena effettuati.
Prendendo l’avvio con l’aspetto formale e iconografico, il quadro – che mostra un uomo con il viso pienotto e rubizzo, dalla voluminosa capigliatura ma stempiato, elegantemente abbigliato, lo sguardo malinconico e vagamente intimidito, la mano sul cuore, con le masse scalate diagonalmente in profondità da sinistra (il tavolino in primo piano, la figura in mezzo e la colonna sul fondo) – offre numerosi agganci con l’oeuvre dell’artista, anche più precisi e coinvolgenti di quelli, poc’anzi sottolineati dalla scheda d’asta, con il Ritratto di Alexander Henderson, un dipinto che la critica ha situato tra le ultime creazioni del pittore (tra il 1640 e il 1641), al quale spetterebbe l’impostazione generale e la testa (“The head is very good, softly modelled, the features strongly drawn, the hair very delicately handled”[2]) mentre il fondo e l’abito sarebbero imputabili a un assistente, il che avrebbe magari portato a svilirlo come una copia da Van Dyck in un precoce inventario. Si ponga mente infatti a due opere sempre dell’ultimo periodo londinese, il Ritratto di Carlo I in abiti regali (1636 ca.), dove il sovrano ci fissa con lo stesso sguardo del gentiluomo e dove svetta una colonna identica anche nel basamento a quella del nostro ritratto, e il Ritratto di Carlo I della Gemäldegalerie di Dresda (1637 ca.), che oltre al formato condivide sia il tavolino rivestito di tappeto su cui l’effigiato appoggia la mano sia il cappello collocato sul medesimo tavolo [3], sopra il quale, peraltro, il re depone un elmo in un altro ritratto – il Carlo I in armatura della collezione del duca di Norfolk, Arundel Castle, Sussex (1635-1636) – facendo presumere l’impiego di uno stesso set dove ambientare l’opera (Millar, A Complete Catalogue…, 2004, p. 475), un atelier dove l’artista schizzava il modello e variava pose e oggetti di contorno, velocizzando il lavoro, tanto da arrivare talvolta a licenziare due ritratti al giorno[4]. Come scrive Justus Müller Hofstede (Van Dyck, Milano, 1966) egli “era sovraccarico di commissioni di ritratti. Lavorava spesso in un sol giorno a più ritratti, razionalizzava il suo lavoro portando velocemente a termine le commissioni, si limitava a pochi schemi-base della composizione”, e immortalava i personaggi, “lo sguardo freddo e distante volto all’osservatore, preziosamente abbigliati, dinanzi a colonne, o pilastri o drappeggi di broccato”. Colonna con basamento, tendaggio e tavolino d’angolo rivestito da un tappeto orientale si ritrovano in due tele degli anni precedenti, entrambe oggi all’Ermitage di San Pietroburgo, il Ritratto di Marc Antoine Lumagne (1625 ca., cfr. A Complete Catalogue…, 2004, II.50) e il Ritratto di Nicolaas Rockox (1621 ca., ibidem, 2004, I.105). I raffronti possono continuare con il Thomas Killigrew e William Crofts della Royal Collection a Windsor Castle (1638, ibidem, IV.146, stesso basamento della colonna), con il Ritratto di uomo della famiglia Van der Borght del Rijksmuseum di Amsterdam (1630 ca., ibidem, III.73, ingombro della figura, colonna, cappello sul tavolo), con il Ritratto di Peeter Symons del Museum of Fine Arts di Boston (1630 ca., ibidem, III.A23, disposizione, colonna), con il Ritratto di giovane Spinola della Galleria di Palazzo Rosso a Genova (1622 ca., ibidem, II.66, tenda, copricapo sul tavolo), quadro che peraltro esibisce una elaborata colonna tortile che inizialmente era stata impostata sulla tela tramite il lineare schema cilindrico, raffigurato pure su un possibile disegno preparatorio conservato all’Albertina di Vienna[5], procedimento inverso rispetto a quello del nostro dipinto, dove sembra che la colonna sia il risultato di un’elaborazione svolta nel senso di una semplificazione.
Come si può notare si tratta di una formula compositiva collaudata che attraversa tutta la carriera dell’artista, senza essere concentrata in un unico periodo, cosa che concorda con la difficoltà di datare le opere su basi puramente stilistiche, anche perché, come rileva Nora de Poorter, da un lato “Van Dyck employed various styles simultaneously”, e, dall’altro, che il suo modo di lavorare non variava sostanzialmente col tempo (“There is evidence that during the English period Van Dyck worked on several portraits on the same day […] and it is possible that this was a habit first acquired in the early years in Antwerp”, in A Complete Catalogue…, p. 16 e p. 19, nota 12).
Restano comunque alcune utili suggestioni relative ai diversi periodi, ad esempio quello romano, quando, lo scrive Maria Grazia Bernardini, realizzò “una serie di ritratti a mezzo busto, che seguono uno stesso schema compositivo e una simile intonazione cromatica, in quanto giocata su poche tinte scure, e sono accomunati da quell’attenzione alla personalità e alla psicologia dell’effigiato che li rende eccezionali”, o quello genovese, dove Piero Boccardo parla di “Ritratti silenziosi, espressività percepibile ma non ostentata, architetture che evocano e non contengono, mobili che non arredano; notazioni psicologiche, attenzione alla realtà interiore degli effigiati e, insieme, alla precisione fisionomica, sensibilità per la sfera degli affetti […] Un magnifico contegno che pervade questi grandi quadri di ritratto”[6]. Oppure quello della fase finale in Inghilterra, dove, spiega Erik Larsen, “lo vediamo adottare uno stile attento agli elementi decorativi, alle tinte luminose e all’eleganza, pronto a cogliere taluni motivi manieristi per sottolinare l’artistocraticità dei suoi effigiati”, non tacendo del livello inferiore di tale fase sanzionato da una parte della critica, “considerato il numero delle tele di discutibile fattura, l’ostentata eleganza, i colori talvolta grezzi, la trascuratezza e la ripetitività delle pose, dell’abbigliamento e dei gioielli, che in qualche caso tradiscono un superficiale e frettoloso esercizio della creatività dell’artista”[7].
In ogni caso, come ricordava il Fromentin (Les maitres d’autrefois, 1877), egli sa “il modo in cui le vesti andavano indossate, le mode, ha il gusto delle stoffe seriche, del raso, delle spalline, dei nastri, delle piume e delle spade fantasiose” e i suoi personaggi “sono damerini dal farsetto sbottonato, dalle camicie svolazzanti, dalle calze di seta, in abiti accuratamente attillati”, e in definitiva, a confronto con l’altro grande maestro ritrattista Tiziano, tanto ammirato dal Nostro, giustamente lo Shaeffer (Van Dyck, 1909) statuiva che “Il veneziano dipingeva, in senso schopenhaueriano, ‘ciò che uno è’, il fiammingo, ‘ciò che uno rappresenta’”. In tema di paralleli, perché non ricordare altresì il rapporto tra Van Dyck e il suo maestro Rubens, i cui ritratti, come teorizza Nora de Poorter (A Complete Catalogue..., cit., p. 18), spiccano per vitalità e plasticità, di contro alla malinconia e alla vulnerabilità espresse dai personaggi vandyckiani?
Resta comunque un fatto: l’artista, come ricorda Roberta d’Adda (op. cit, 2004, p. 49), “aveva raggiunto in questo genere una padronanza assoluta: prendeva pochi schizzi dal vero per studiare il volto e la posa del modello e poi passava direttamente alla tela”.
Un altro elemento che attira l’attenzione è l’elaborato colletto di pizzo, che si rinviene in parecchi dipinti, anzi, secondo il parere di Susan North, in quasi tutti i ritratti di uomini appartenenti all’aristocrazia – a quelli più noti quali il Ritratto di James Stuart, duca di Lennox e Richmond (New York, Metropolitan Museum, 1633 ca.), il Ritratto dei fratelli John e Bernard Stuart (Londra, National Gallery, 1638 ca.) e il Ritratto di Philip Herbert, conte di Pembroke (Inghilterra, collezione privata, 1637 ca.)[8], aggiungiamo il Ritratto di gentiluomo di collezione privata genovese, attribuito al Van Dyck del periodo inglese da Adolfo Venturi nel 1941, e il Ritratto di giovinetto (Genova, Galleria Durazzo Pallavicini Giustiniani Negrotto ) [9] – e la stessa studiosa precisa che nei ritratti tardi i colletti più piani e sobri prendono via via il posto di quelli dalla fattura più raffinata (Van Dyck and Britain, cit., p. 127).
Attinenze si trovano anche con una tela eseguita da Van Dyck negli anni italiani, il presunto Ritratto di Desiderio Segno delle collezioni del principe del Liechtenstein a Vaduz (1624), dove tra l’altro il personaggio, come nel nostro quadro, sfoggia al mignolo della mano sinistra un anello di simile conformazione[10]. A proposito di mani, la loro disposizione, ma in controparte, si osserva nel Ritratto di uomo già in raccolta genovese (1627 ca.), che probabilmente raffigura Lucas de Wael, uno dei due fratelli artisti che ospitarono il Nostro durante il suo soggiorno italiano[11], e il fatto che, come scrive Susan Barnes, l’uomo “is presented in a manner similar to that of other artists and amateurs” (A Complete Catalogue…, scheda II.83), può far supporre che anche il protagonista del nostro ritratto possa essere un artista, ipotesi rafforzata dalla catena d’oro che spunta dall’apertura del giubbone[12].
Salvo il primo periodo anversese, la mano portata al petto è una costante della ritrattistica vandykiana, e tra gli innumerevoli esempi che sarebbe possibile fare scegliamo, anche per il taglio, le dimensioni, l’abbigliamento e la presenza della colonna, il Ritratto di uomo della collezione del Duca di Bedford (1638-1640 ca.[13]), dove il gesto del braccio è davvero somigliante. Il tipo di mano, robusta e dalle dita un po’ nodose, si ritrova nel Ritratto di Sir Kenelm Digby (1635 ca.) e nel Ritratto di William Howard, Visconte di Stafford (1638-1640 – firmato “VAN DYCK”), entrambi in raccolte britanniche, differenti dalle mani delicate e sottili tipiche dell’artista, specie nell’ultimo periodo, quando, come rileva Erik Larsen (L’opera completa di Van Dyck, cit. II, p. 9), “si fanno più lunghe e affusolate, fino a perdere definitivamente di volume”.
Ma una intrigante somiglianza si ravvisa con il Ritratto di nobiluomo passato in asta presso il Babuino di Roma nel febbraio 2024 con autentica dello stesso Erik Larsen, specialista del Fiammingo (come replica autografa della versione a figura intera conservata agli Staatliche Museen di Kassel, cfr. H. Vey, A Complete Catalogue..., cit., scheda III.179, del 1630 ca.), condividendone l’impostazione, lo spazio occupato dalla figura, il rigonfiamento del mantello sul braccio sinistro, la fila di bottoni sul vestito e la gestualità, con la mano sinistra quasi identica nella conformazione e nella disposizione, viste le dita lievemente piegate che lasciano uno spazio arcuato tra il medio e l’anulare. Parrebbe allora valere per il nostro quadro quello che la scheda dice del dipinto in asta, ossia che “Come nella maggior parte dei ritratti di Van Dyck, la figura appare di tre quarti e su un fondo neutro, utile a far risaltare i bianchi dell’ampio tessuto che cinge e si diparte dal collo e mette in risalto il viso sul quale l’artista fissa pregevolmente l’attenzione [...] Nell’opera è ancora evidente la nobiltà del tessuto pittorico vandichiano, che conserva intatte quelle impercettibili trasparenze dell’impasto cromatico, fatto di mescolate velature rosee e grigie, atte a rendere vivida l’impressione dei tratti di sottile epidermide degli incarnati e di mobilità dei pregiati tessuti delle vesti”. E proprio riguardo alla tenuta, essa potrebbe essere di stile spagnolo, però non necessariamente ostentata da una personalità spagnola di Anversa ma adatta anche, come nota Horst Vey (A Complete Catalogue..., cit., p. 381), a un “gentleman from Genoa, where Spanish dress was also fashionable”, un ritratto quindi che potrebbe appartenere al periodo italiano, “and this seemed plausible in view of the warm, dark colouring, the column with the green curtain and the rusticated masonry of the wall” (ibidem).
Un discorso speciale va fatto per il particolare tipo di supporto, la carta, che, accanto alla prevalente tela e all’occasionale tavola lignea, si incontra tra i materiali utilizzati da Van Dyck, segnatamente nel primo periodo anversano ma anche nel periodo genovese, basti pensare al Ritratto di dama di collezione privata (1625 ca.), bozzetto a olio preparatorio del dipinto conservato al Museum of Art di Denver, al Ritratto di Battina Balbi Durazzo della Galleria Palatina di Palazzo Pitti a Firenze (1623 ca.), altro bozzetto a olio, preliminare per il ritratto conosciuto come La dama d’oro (collezione privata) e alla coppia formata dal Ritratto di Anton Giulio Brignole-Sale e dal Ritratto di Paolina Adorno Brignole-Sale (Milano, collezione privata, 1626 ca.), olii su carta propedeutici ai due ritratti oggi nella Galleria di Palazzo Rosso a Genova[14]. Nel corpus delle opere riconosciute a Van Dyck gli olii su carta sono in totale una quindicina, tutti concentrati nei primi dieci anni di lavoro (periodi anversano e italiano) e tutti studi preparatori o prove per il dipinto finale[15], per cui il quadro qui in discussione sarebbe un unicum, magari realizzato su esplicita richiesta del committente o per sperimentare una speciale soluzione pittorica, e non a caso la richiamata scheda d’asta Wannenes sottolineava questo “aspetto tecnico quanto mai singolare e prezioso per un’opera di queste dimensioni”. L’atteggiamento sperimentale di Van Dyck è ventilato da Michela Fasce quando, a proposito del Ritratto di Ansaldo Pallavicino della Galleria Nazionale di Palazzo Spinola a Genova, 1625 ca., condotto su un atipico supporto ad armatura saia diagonale, scrive come “in un’ipotetica fase sperimentale della creazione, Van Dyck abbia scelto, visti i dipinti veneti eseguiti su supporti simili, di provare un tessuto meno liscio [...] utile a frantumare il tratto pittorico, molto liquido e velato, ottenendo una luminosità della pellicola pittorica diffusa e non riflettente”[16].
Da quanto si è detto, risulta difficile fissare, su base stilistica, una data per l’opera in studio all’interno delle quattro tradizionali fasi del curriculum del maestro fiammingo, anche se una cronologia afferente all’ultimo periodo londinese (1632-1641) parrebbe favorita di un’incollatura sul soggiorno in Italia (1621-1627), in particolare quello a Genova, ma quest’ultimo scenario potrebbe essere, se non sostenuto e giustificato, almeno suggerito dal supporto particolare e dalla provenienza del dipinto dal mercato ligure, tenendo presente che proprio alla produzione italiana apparterrebbero molti dei quadri che, stando alle fonti, Van Dyck avrebbe posto in essere e sono al momento ignoti (cfr. Barnes, A Complete Catalogue…, p. 146).
Sul versante tecnico, le campagna diagnostica effettuata sul quadro – che viene definito in buone condizioni di conservazione – consente di intravedere degli elementi che invitano a stringere ulteriormente i rapporti con Van Dyck, e con il Van Dyck del soggiorno italiano, fermo restando che la costruzione del dipinto può essere condizionata dal particolare supporto impiegato (carta), sicché la lavorazione si differenzierebbe da quella delle opere su tela[17].
La micrografia e la stratigrafia rivelano che sopra una strato di preparazione grigia si trova un’imprimitura bruno-rossastra[18]. Più in particolare, lo strato preparatorio, complessivamente di colore biancastro, è costituito prevalentemente da biacca e calcite, con tracce di nero organico[19]. Sono aspetti da rimarcare dal momento che l’artista, come nota Mauro Sebastianelli [20], “era solito eseguire le imprimiture di colore grigio attraverso la combinazione nero carbone, carbonato di calcio e/o biacca...”, rammentando che “non mancano però imprimiture di tonalità rosso-bruna che si riscontrano in alcuni dipinti italiani e londinesi”. L’uso dell’imprimitura grigia si rinviene in diversi dipinti del periodo genovese, come confermato ultimamente da Michela Fasce nel suo approfondito studio sulla tecnica vandyckiana[21], per la quale “L’imprimitura grigia, grigio-gialla o rossiccia, diversificata su diverse parti dei dipinti è osservabile anche tramite le micro immagini eseguite con il microscopio digitale sulle opere eseguite e conservate in Liguria del periodo genovese” (p. 23), giungendo a ipotizzare che “sotto i toni scuri Van Dyck non applichi il priming chiaro, ma, sfruttando i toni della preparazione, li usi come sotto modellato pittorico per aumentare la profondità del colore scuro; mentre per i chiari, questo procedimento lo attui con la preparazione grigia” (ibidem, p. 22). Ma ancora più degno di nota è che, come afferma la stessa autrice, al termine del primo periodo anversese, “Durante il viaggio nella penisola, la preparazione si diversifica, assumendo i toni del marrone-grigio e del beige, se è presente un’unica stesura, mentre, se esiste anche l’imprimitura, che può essere grigia o rosa o gialla, i ground variano dal marrone rossiccio al marrone chiaro e al beige” (ibidem, p. 49), il che si sposa con quanto da altri rilevato (Harth et al., cit., 2017), ossia che durante il primi anni ad Anversa “Van Dyck painted on white and grey-colored chalk grounds, either single or double layered” e che in seguito “he worked on single brown-colored grounds or double red grounds with grey priming”. Riguardo l’ultimo decennio a Londra, “Double grounds for canvas paintings are common at this period, and the upper ground was usually some shade of light brown, or light to mid-grey”[22].
Gli infrarossi hanno fatto affiorare tracce di disegno preparatorio, segnatamente lungo la linea del volto (Paolini, 2021), underdrawing che, come spiega Davide Bussolari [23], “ne definisce i tratti fisionomici, abbozza i capelli sulla fronte e suggerisce la peluria delle sopracciglia e dei baffi”, aggiungendo che “Sulla destra si individua un tratteggio tracciato rapidamete allo scopo di individuare l’ombreggiatura del viso”. Viene in mente il già citato Ritratto di giovane di casa Spinola (Genova, Musei di Strada Nuova, Palazzo Rosso, 1622 ca.), dove si notano delle linee di disegno, a carboncino, sugli occhi e sul labbro e una linea tracciata a pennello sul mento (cfr. Fasce, op. cit., p. 55). Va infatti tenuto conto come spesso nelle opere di Van Dyck “i tracciati siano stati stesi con un mezzo carbonioso o una matita, ripassati a pennello, tramite un inchiostro liquido e come in alcuni casi presentino delle modifiche rispetto al progetto iniziale” (op. cit., p. 27). Una modifica tocca il tavolo e il sovrastante cappello: “Il primo ha subito una riduzione, risultando meno profondo nella versione finale. In merito al copricapo, la radiografia sembra isolare una sagoma riconducibile a un cappello tubolare, dunque differente da quanto visibile a occhio nudo” (Bussolari), punto quest’ultimo che rimanda di nuovo all’appena menzionato Ritratto di giovane di Palazzo Rosso, nel quale un tracciato disegnativo emerge anche dal cappello appoggiato sul tavolo (Fasce, cit., p. 56).
Un’altra variazione riguarda la testa, dove “è possibile notare che in una prima versione i capelli occupavano uno spazio più ampio rispetto a quanto visibile oggi. Allo stesso modo, anche il volto presentava una maggior larghezza sui lati, mentre la stempiatura era collocata più in alto” (Bussolari), cambiamento, quello dei capelli, che, sia pure con una modifica di segno contrario, accrescitiva e non riduttiva, si ritrova nel Ritratto del gioielliere Giacomo Pucci con il figlio Alberto (Genova, Musei di Strada Nuova, Palazzo Rosso, 1627 ca.), nel quale “È molto probabile che inizialmente i capelli fossero stati pensati con meno volume, abbozzati sul profilo dell’incarnato e, successivamente, in fase pittorica, sia stata data una maggiore massa all’acconciatura” (Fasce, cit., p. 71).
Le radiografie hanno indicato che il colletto (si tratterebbe di “un colletto all’italiana impunturato di trine”, Paolini, 2021), “mostra una sagoma semplificata, non del tutto corrispondente alla forma attuale, suggerendo che la modifica del profilo e la decorazione in pizzo siano state eseguite in ultima fase” (Bussolari). Inoltre sono riemersi alcuni dettagli decorativi dell’ampio mantello sul braccio sinistro, scuriti dal tempo o velati dall’artista, da paragonarsi al disegno abbozzato sulle pieghe delle vesti delle due protagoniste del Ritratto di Geronima Sale Brignole con la figlia Maria Aurelia (Genova, Musei di Strada Nuova, Palazzo Rosso, 1627 ca., - cfr. Fasce, cit., p. 77). Sempre sul versante vestimentario, il nostro personaggio veste “una giubba nera con fenestrelle, una camicia di trine e jabòn, brache nere, mantello alla spagnola con maniche ampie e catena d’oro” (Paolini).
Altri significativi “pentimenti” si riscontrano nella mano al petto, dove il cambiamento, “volto a riproporzionare l’arto con il resto del corpo, ha richiesto una riduzione del dorso e del polso, oltre a una traslazione evidente di anulare e mignolo già completo di anello” (Bussolari), come pure nell’altra mano, che “mostra una modifica non trascurabile: le dita sono state dipinte al di sopra della stesura radiopaca della tovaglia, andando dunque ad occupare uno spazio più ampio di quello previsto nello schema iniziale” (ibidem).
Le riflettografie hanno confermato e dettagliato quanto svelato dalle radiografie, in particolare, “la capigliatura sembra occupare uno spazio ben preciso, definito in una fase preliminare, mentre al suo interno le ciocche riacquistano parzialmente la gamma chiaroscurale originale, ottenendo dunque maggiore definizione. Anche l’articolazione dell’abito si fa più leggibile e l’intera sagoma del personaggio diviene chiaramente distinguibile rispetto al fondo scuro” (ibidem) e risulta più evidente in riflettografia anche la correzione che ha coinvolto il profilo destro della colonna.
Tutti queste piccole e grandi modifiche in corso d’opera non stupiscono perché, come osserva Michela Fasce, in Van Dyck “lo sketch non sempre è perfetto e sono necessari alcuni cambiamenti, sia del disegno sia della progettazione pittorica, per ottenere la composizione finale” (op. cit., 2023, p. 50), ciò che peraltro si riscontra anche in altri quadri di diversi periodi (cfr. A. Roy, cit., 1999).
Passando al ductus del quadro in discussione, esso è articolato, secondo Cecilia Paolini, in “pennellate molto sottili ed omogenee, più corpose nei chiari (come per esempio l’attaccatura delle nocche); nelle zone scure, invece, le pennellate sono più ampie e diluite”, e pure per Davide Bussolari “l’artista ha costruito la raffigurazione mediante sottili stesure di colore, necessarie a conferire la morbidezza dei passaggi chiaroscurali che caratterizza il dipinto. L’unica eccezione sono i merletti e la decorazione dorata della tovaglia, dove gli impasti divengono leggermente più corposi”, con un modus operandi proprio della tecnica di Van Dyck, che, come dichiara Mauro Sebastianelli (op. cit., 2012, p. 43), “è caratterizzata da una composizione molto rapida con un’alternanza di pennellate fluide e corpose in relazione alla zona del dipinto da campire”, una prassi comunque imperniata su stesure rapide, le quali “costituiscono uno dei tratti distintivi della pittura del Van Dyck” (ibidem), pennellate libere e aperte che talvolta consentono allo strato sottostante di emergere tra le campiture, così come, è sempre Ashok Roy a rimarcarlo (cit., p. 52), un underdrawing scuro a pennello può essere intravisto tra le campiture laddove queste non si sovrappongono perfettamente nei vari passaggi pittorici. Del resto, come illustra Michela Fasce (op. cit., 2023, p. 50), la pittura eseguita in velocità “è evidente nelle opere genovesi, soprattutto in quelle dipinte nell’ultimo periodo della sua permanenza in città. Questo modo di procedere, che sfrutta in parte l’imprimitura e il disegno preparatorio pittorico, lungo i bordi delle figure, è comunque già presente anche nelle opere dei primi anni del soggiorno in Italia”. Si tratta di un approccio pittorico che l’artista conserverà anche in futuro, diverso da quello della fase giovanile in patria, e le differenze, come specifica Didier Bodart (op. cit., 1997, p. 22), “vanno ricercate nei colori, più fluidi e cangianti, nei tocchi di pennello più larghi, nelle tela dalla trama meno sottile, che determina uno strato di colore meno liscio, negli impasti più generosi alla maniera italiana”.
Rapidità di stesura che l’artista accentuerà negli ultimi anni, quando si concentrerà più sulle figure e sui loro abiti che sul fondale e sulle architetture[24].
A proposito dei colori, la tavolozza, che nel periodo italiano divenne, per Müller Hofstede (op. cit., 1966), “più sfumata, più scura, più ricca di nuances, la sua pennellata più misurata e sensibile, il suo modo di stendere i colori più delicato, più attento e fluido”, prevede l’impiego di smaltino, azzurrite e indaco per gli azzurri (raro il ricorso all’oltremare), biacca e carbonato di calcio per i bianchi, giallorino, giallo di Napoli e ocre per i gialli, cinabro, lacche e ocre per i rossi, verderame e resinati di rame per i verdi (ottenuti anche mescolando il giallo con azzurrite, indaco o smaltino), terra di Cassel (il cosiddetto “bruno Van Dyck”) per i bruni e i marroni (cfr. M. Fasce, cit., pp. 39-40), precisando che per gli incarnati “generalmente il pittore fiammingo impiegava la biacca e varie tipologie di rossi per realizzare gli incarnati molto luminosi, adatti alle figure femminili e ai bambini; per i personaggi maschili, invece, gli incarnati appaiono molto più scuri, eseguiti con velature di biacca, vermiglione, nero carbone e vari tipi di terre” (Sebastianelli, cit., 2012, p. 67 nota 33 - vedi soprattutto lo studio di L. Alba, M. Jover, M.D. Gayo in Lammertse e Vergara, El joven Van Dyck, catalogo della mostra, Madrid, 2012, pp. 337-377). Lo stesso viene dichiarato in altri studi: “The darker flesh of the male characters was based on vermillion, while lead white, carbon black, calcite, gypsum, brown and/or red earths were added, depending on the required luminosity” (Harth et al., cit., 2017). In sostanza, per le donne e i bambini, il pittore “crea una pellicola pittorica luminosa, formata da biacca e poco pigmento rosso, macinato finemente. Diversamente, nei personaggi maschili il tono è più scuro, composto, oltre che dal rosso, da terre e nero fumo” (Fasce, cit., pp. 43-44). Interessante allora notare che nel dipinto in studio gli incarnati sono prodotti (vedi Baldan, 2023) proprio con biacca, cinabro, ocra rossa, ai quali è stato aggregato, trattandosi di un personaggio maschile, un pigmento nero (nero d’ossa).
In definitiva, le analisi scientifiche, oltre a dimostrare la compatibilità dei materiali pittorici con la pittura del XVII secolo (Bussolari, 2023, Baldan, 2023), in particolare quella tra il quarto e il quinto decennio del Seicento (Paolini, 2021), hanno evidenziato la compatibilità della tecnica esecutiva con quella vandyckiana, attribuzione che qui si avanza e che sollecita le verifiche e gli approfondimenti del caso, in attesa di quella prova inoppugnabile che, nel gergo investigativo, sarebbe la “pistola fumante”: sì, perché sulla manica destra del personaggio effigiato è chiaramente visibile in radiografia un’impronta digitale, rimasta impressa quando la pittura era ancora fresca (Bussolari). Nella consapevolezza che Van Dyck non era schedato (un gentiluomo come lui, nominato “Sir” da Carlo I d’Inghilterra, figuriamoci!), chissà se sui dipinti certi del maestro fiammingo non si trovi magari il segno delle sue dita per effettuare il risolutivo confronto?
Nella foto: Anton Van Dyck (qui attribuito), Ritratto di gentiluomo (1626-1636), collezione privata.
[1] Vedi J. Barnes, N. de Poorter, O. Millar, H. Vey, Van Dyck: A Complete Catalogue of the Paintings, New Haven and London, 2004, scheda IV.112 (d’ora in poi citato come A Complete Catalogue…, 2004).
[2] O. Millar, A Complete Catalogue…, 2004, p. 519.
[3] Sui due ritratti si veda A Complete Catalogue…, nn. IV.53 e IV.58, rispettivamente. In comune tra i tre quadri vi sarebbe anche il tendaggio sulla sinistra, se il tempo non avesse compromesso la visibilità della tenda che le indagini diagnostiche hanno rivelato anche nel nostro esemplare e che a occhio nudo si intravede appena.
[4] M.C. Galassi in M. Fasce, Antoon van Dyck genovese. Tecnica, progettazione, sviluppo, Genova, 2023, p. 3. Dato un tale vertiginoso ritmo di lavoro, peraltro da abbassare sensibilmente tenendo presenti i tempi improduttivi connessi a viaggi, periodi di malattia e varie circostanze e incombenze della quotidianità, si può congetturare che, in oltre vent’anni di attività, i dipinti di Van Dyck, interamente o parzialmente di sua mano, ammontino a qualche migliaio, molti dei quali mancano all’appello se si tiene per buono, come conviene almeno fino alla data di edizione (2004), il citato catalogo completo, che ne elenca “appena” 800 circa, tra certi e attribuiti (ignoti resterebbero dunque come minimo altrettanti pezzi, se non il doppio!). Più cauto il computo effettuato da Gregory Martin (cit. in AA.VV., Van Dyck and Britain, catologo della mostra, London, Tate Britain, 2009, p. 155, nota 4) per il quale nel secondo periodo inglese l’artista avrebbe sfornato un quadro a settimana (si arriverebbe comunque, estendendo una tale media all’intero arco della vita produttiva, a circa 1.200 opere), ricordando però sempre che “Molte sono opere di bottega, nelle quali l’intervento del maestro è piuttosto ridotto e limitato per esempio all’esecuzione del viso” (R. D’Anna, Van Dyck, Milano, 2004, p. 58).
[5] Vedi AA.VV., Van Dyck a Genova. Grande pittura e collezionismo, catalogo della mostra (Genova, Palazzo Ducale), Milano, 1997, scheda n. 34 di Clelio di Fabio.
[6] Vedi AA.VV., Anton van Dyck. Riflessi italiani, catalogo della mostra (Milano, Palazzo Reale), Milano, 2004, pp. 59 e 64, rispettivamente.
[7] E. Larsen, L’opera completa di Van Dyck, 2 voll., Milano, 1980, II, p. 8.
[8] V. A Complete Catalogue…, schede IV.200, IV.221, IV.182, rispettivamente.
[9] Si veda 100 opere di Van Dyck, catalogo della mostra (Genova, Palazzo dell’Accademia), Genova, 1955, schede 89 e 20, rispettivamente.
[10] V. quanto scrive Vincenzo Abbate in Anton van Dyck. Riflessi italiani, cit., pp. 75-76. Anche in un altro ritratto del 1624, l’Emanuele Filiberto di Savoia (Londra, Dulwich Picture Gallery), si nota un medesimo anello sul mignolo sinistro (ibidem, scheda n. 10).
[11] Cfr. P. Boccardo e C. di Fabio in AA.VV., Van Dyck a Genova, cit., scheda n. 63.
[12] Se fosse un artista, è arduo e azzardato, in assenza di documenti storici o inventariali e di somiglianze palesi, identificare la personalità, anche se grazie alle tecnologie diagnostiche sarebbero apparsi sulla tela dei segni, alcuni interpretabili come una data (1636?) e come sigle (G B C?) che potrebbero essere lette come le iniziali di Giovanni Benedetto Castiglione (detto il Grechetto) o di Giovanni Bernardo Carbone, entrambi artisti seguaci del maestro fiammingo. Tra l’altro, il primo, diciassettenne, lo aveva frequentato secondo il Soprani (Le Vite de’ Pittori…, Genova, 1674, p. 223) nella sua bottega genovese intorno al 1626-1627, e i due inoltre condividevano praticamente la data di nascita a dieci anni di distanza l’uno dall’altro: 22 marzo 1599 Van Dyck, 23 marzo 1609 il Grechetto. Non si può comunque ventilare che il quadro sia un omaggio di Van Dyck al suo allievo, visto che l’effigiato non dimostra certo diciassette o diciotto anni, a meno di non pensare a un ritratto idealizzato dipinto “di fantasia”, sulla base di ricordi o di vecchi schizzi, dieci anni dopo la loro frequentazione. Qualora il rimando sia invece al Carbone, nato nel 1614, le conseguenze da trarre coinvolgerebbero anche l’aspetto attributivo.
[13] V. A Complete Catalogue…, 2004, scheda IV.249.
[14] Sui bozzetti cartacei menzionati si veda, rispettivamente, AA.VV., Van Dyck a Genova, cit., 1997, schede nn. 37, 41 e 58a-b, come pure A Complete Catalogue…, 2004, schede II.112, II.28 e II.32-33. Un altro bozzetto a olio cartaceo, che pare un vero e proprio quadro, è il Cristo coronato di spine del Courtuld Institute di Londra (1626-1627), prima versione del dipinto del Barber Institute of Fine Arts di Birmingham (cfr. A Complete Catalogue…, scheda II.9). È un’ipotesi di scuola, ma che pure l’esemplare in esame, visto il supporto, sia una prima versione di un quadro su tela ad oggi irreperibile?
[15] “Dipingendo a olio su carta o su tela poteva velocemente fissare le loro fisionomie e i colori del viso per trasferirli in un secondo momento nella composizione che creava sulla grande tela” (S.J. Barnes, in Van Dyck a Genova, op. cit., p. 75).
[16] Cfr. Antoon van Dyck genovese, op. cit., 2023, p. 65.
[17] Cfr. Harth et al., The young Van Dyck’s fingerprint: a techinical approach to assess the authenticity of a disputed painting, Heritage Science, 2017.
[18] Cecilia Paolini, relazione tecnica, Art G.A.P. Diagnostics, Roma, 2021.
[19] Mirella Baldan, relazione tecnica, R&C Art, Altavilla Vicentina (Vi), 2023.
[20] In Anton van Dyck e il restauro della Crocifissione Villafranca di Palermo, Palermo, 2012, p. 40.
[21] Cfr. op. cit., 2023; un’altra fondamentale ricerca sulla tecnica del pittore è quella di Christensen, Palmer e Swicklik in Wheelock e altri, Anthony van Dyck, catalogo della mostra, Washington, 1990.
[22] Cfr. Ashok Roy, The National Gallery Van Dycks: Technique and Development, National Gallery Technical Bulletin, vol. 20, 1999, p. 50.
[23] Davide Bussolari, relazione tecnica, Diagnostica per l’arte Fabbri, Campogalliano (Mo), 2023.
[24] Ashok Roy (cit., p. 80) rileva che nei ritratti della fase tarda “all painterly attention is devoted to the figures of the sitters and their draperies ad little to the background and setting, which are left in a cursory sketchy state”. Nel quadro in oggetto una pari attenzione sembra essere data al personaggio e all’ambientazione.
In allegato il testo completo con foto.